Non trovo titoli adeguati per quello che sto per condividere qui oggi. Non so se questo lo possa essere o se verrà considerato come mancanza di rispetto ai morti del giornale satirico francese negli attentati del gennaio 2015. Sinceramente però mi importa poco. Perché io non mi sono mai sentita Charlie in quell'occasione, così come invece mi sento ora vicina a quest'altro Charlie, che sta per subire una sorte persino peggiore di quella degli ormai noti giornalisti.
La storia il cui tristissimo epilogo è stato reso noto in questi giorni è una storia che mi ha profondamente turbata, in quanto mamma e in quanto essere umano. Sto parlando del piccolo Charlie Gard e della sua condanna a morte, sentenziata in questi giorni dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo. Se la vicenda non fosse così tragica, saremmo al limite della barzelletta: può una corte dei diritti dell'uomo stabilire che un bambino di 10 mesi deve morire?! A quanto pare, la risposta è sì.
La cosa assurda è che per i giornalisti di cui sopra ci fu una mobilitazione di portata mondiale in difesa della - sacrosanta, per carità - libertà d'espressione, mentre i più sembrano ora disinteressarsi della forzata sospensione delle cure al piccolo Charlie. E va bene, i due fatti non hanno assolutamente nulla in comune, sono io che li ho associati ora perché mi è semplicemente balenato per la testa di prendere in prestito l'hashtag ideato in quell'occasione, per esprimere la mia personale solidarietà ai genitori di questo piccolo. Da mamma, è davvero straziante pensare a cosa stia provando in questi giorni il cuore annientato della mamma di Charlie.
Assurdo è, poi, questo mondo in cui viviamo. Questa corte europea che in tante occasioni ha fatto sentire la propria voce, ora che fa? Non ritiene di dover interferire con le sentenze britanniche già espresse sul caso di Charlie. Io non ho certo le competenze giuridiche per stabilire se le motivazioni addotte dalle varie corti che si sono pronunciate abbiano un senso e siano sufficienti, però giuro che non arrivo a capire perché debba essere impedito ai genitori di tentare tutte le possibilità per aiutare il proprio figlio a guarire. Tenere Charlie in vita lì dove è ora sta forse diventando troppo costoso? Ok, diciamo ai genitori che lo portino da un'altra parte. Ma perché vietare loro questa speranza? Perché ergersi a giudici supremi e arrogarsi il diritto di decidere che una creatura così fragile non merita di vivere? Non ho davvero parole, se non PrayForCharlie.
Diritto di vivere, dovere di morire
(da Avvenire, link in fondo all'articolo)
Ci hanno detto in ogni modo che conta solo la volontà del paziente, o dei suoi genitori, se è troppo piccolo per poterla esprimere da sé. Ci hanno fatto credere che le determinazioni dei medici devono fermarsi un passo prima di quelle del malato o dei suoi tutori, e che è ora di dire basta col paternalismo medico. Ci hanno riempito la testa di autodeterminazione e dignità del paziente i cui desideri non possono essere coartati in alcun modo.
Hanno però omesso di ricordare che tutti questi ragionamenti valgono solo in una direzione: quella della morte, chiesta o cercata, mentre se la volontà è di vivere, di lottare, di sperare, allora si comincia con i distinguo, l’appello al potere assoluto di medicina e scienza soppianta ogni altra considerazione, e si chiama accanimento quello che per i pazienti o chi li rappresenta è solo una ragionevole chance da tentare, fosse pure l’ultima, e anzi proprio per questo impossibile da ignorare.
Il caso di Charlie Gard, il bambino inglese che con i suoi 10 mesi è probabilmente il più piccolo condannato a morte da una corte di giustizia, frantuma le ipocrisie, spazza via gli alibi, azzera i bizantinismi ideologici utili per asserire l’esistenza di un diritto di morire ma del tutto disarmati e afoni davanti alla disperata domanda di vita. È il sintomo ultimo di un’Europa che a forza di flirtare col nichilismo non sa più riconoscere la sete di vita, persino quando è gridata da due genitori col loro figlio stretto in braccio.
La Corte europea che cento volte s’è sostituita agli Stati quando si trattava di concedere nuove libertà ora di colpo si ritrae sostenendo che non può prendere il posto delle competenti autorità nazionali, pronunciatesi compattamente per la morte del piccolo ritenendo la sua patologia senza possibilità di scampo (ma se così fosse, perché allora non lasciarle seguire il suo corso?). E l’articolo 8 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, che tutela il «diritto al rispetto della vita privata e familiare», invocato infinite volte per farne il perno di sentenze che hanno legittimato quasi ogni possibile desiderio di matrimonio e filiazione, ora improvvisamente pare dimenticato.
Per non parlare della libertà di scelta, che è l’architrave della legge italiana sul fine vita in cantiere ma che naturalmente nessuno ha osato evocare nel pubblico dibattito durante l’estenuante vertenza legale attorno al lettino di Charlie. Il diritto si rovescia così nella sua negazione radicale quando attacca la stessa condizione di ogni libertà, la vita stessa. Un cortocircuito culturale smascherato dalla realtà di una sentenza che decreta la morte anticipata di un bambino per volontà di uomini in camice o in toga.
La tragedia di Charlie, che salvo colpi di scena pare ormai inevitabile, segna un punto di svolta per la storia di un continente che implode per effetto della crisi demografica ma che da oggi scopre di saper arrivare sino al limite sinora inimmaginabile di mandare a morte uno dei suoi figli più fragili.